Il culto della tagliatella
L'Associazione Gli Apostoli della Tagliatella - amici bolognesi dediti al convivio e alla promozione del territorio attraverso i suoi prodotti - è, a suo modo, un segno dei tempi. Il segno di un’epoca nutrita non solo di cibo, ma di cultura del cibo. Ovvero di tradizioni, tipicità e territorio, le tre nuove “t”. Basta dare un’occhiata ai palinsesti televisivi. Si comincia la mattina presto e subito ci si imbatte in una fitta teoria di cuochi, padelle, grembiuli, fornelli, sino alla sera tardi con “vip” di varia estrazione e altrettanto diversificato talento, chiamati a “metterci la faccia”, nell’orchestrare pentole e tegami, per il godimento, più o meno spontaneo, di commensali in paziente attesa. Trasmissioni condotte, per lo più, da persone che di cucina sanno poco o niente, ma la cucina, si sa, è come la nazionale di calcio: siamo tutti commissari tecnici. La cucina sembra diventata l’ultima frontiera sicura dell’Italia televisiva. Fatto sta che il “cibo” fa audience e sta esplodendo nella comunicazione. Nei giornali e in tutto l’universo informativo. Non c’è quotidiano, non c’è settimanale, senza pagine dedicate a ristoranti, culatelli e formaggi di fossa. Nei più prestigiosi inserti letterari dominano sempre meno le recensioni di libri, sempre più ideali assaggi di cibi. Bettino Ricasoli ottiene considerazione più come fondatore del Chianti che come padre della patria, anche alla vigilia dei 150 dell’Unità d’Italia. Cos’è successo? È successo che il cibo è diventato uno dei grandi fattori produttivi del nostro tempo. Con un mercato pressoché senza limiti, che ogni giorno si amplia in relazione all’emergere di nuove proposte. Come si usa dire: un business. Che si dispiega a livello planetario, come qualcosa di uniforme e, al contempo, diversificato, a seconda dei luoghi.
Il cibo è anche questo: crocevia di una globalizzazione che impatta i mille localismi. Ciò che, frutto dell’ingegno dell’uomo strappato agli elementi naturali per la sopravvivenza, quindi desiderio spontaneo e primordiale, nella società affluente, da elemento nutritivo è andato progressivamente trasformandosi in altro. In un fatto più impalpabile. Il cibo è diventato “cultura”, nel senso che l’orizzonte delle aspettative che esso provoca solo in minima parte ha a che vedere con l’alimentazione; prevalentemente riguarda altro: il piacere, il gusto. Il cibo è diventato qualcosa di immateriale. Nessuno nei paesi più progrediti mangia più solo per sfamarsi, ma anche per “essere” ed esprimere qualcosa, dando un senso, attraverso il cibo, alle relazioni sociali. Il cibo, sempre di più, viene promesso come un sogno, vissuto come tutto ciò che, più di ogni altra cosa, tocca l’immaginario. Ma non si comprende il successo del cibo, da quello dozzinale a quello più esclusivo, se non lo si inserisce in quella che George Ritzer ha chiamato La religione dei consumi e che, come “oggetto di desiderio”, coinvolge interi continenti. Allo stesso tempo diventa qualcosa che crea vicinanza, incontro tra le persone, che fa “tendenza”. Nella società secolarizzata, a rischio di perdita di valori e di significati alti, il cibo diventa un surrogato.
In questo senso, stranamente, il cibo si fa fenomeno di massa, in un processo che risale, indietro nel tempo, a quando Ray Kroc, il 15 aprile del 1955, ebbe modo di aprire il primo McDonald’s. Certo: dire male dei McDonald’s è sin troppo facile. Invece dell’originalità, la serialità. Invece della lentezza, la fretta. Qualcosa di non lontano da una società della superficie, che corre il rischio di essere tendenzialmente sempre più fondata sugli schermi, del televisore e del computer, piuttosto che sull’esperienza intesa come qualcosa di significativo che può sorprenderci e cambiarci. Come talvolta può capitare a ciascuno di noi. Come quando, giunti in un certo borgo all’imbrunire, stanchi e magari di buon appetito, ci succeda di ritrovarci, in una certa trattoria, davanti ad una tavola apparecchiata, per essere introdotti a un saper fare, che si tramanda da generazioni, che si traduce in una particolare attitudine nel rielaborare certi prodotti della terra, in grado di restituire un certo modo d’essere e di presentarsi di quel luogo, come qualcosa di inconfondibile. Lì abbiamo la sensazione che in quel bicchiere di vino e in quel piatto sia contenuto un mistero che si rivela, in modo unico ed esclusivo, a noi soltanto. È questo il fascino che può attrarre e legare, all’emozione per la tavola, ciascuno di noi.
San Lazzaro ha, tra le sue caratteristiche, quella di essere approdo di un escursionismo spontaneo di cui la ristorazione costituisce un forte elemento attrattivo. A ciò si aggiungono occasioni di richiamo come le manifestazioni promosse dall’Istituzione Prometeo, tra le quali merita una sottolineatura la Fiera, giunta nel 2010 alla 180° edizione, nel primo fine settimana di agosto. Fu il priore, come allora si chiamava, Carlo Berti Pichat, nel 1830, due anni dopo la nascita del Comune di San Lazzaro di Savena, a fissare definitivamente la data di un evento ereditato dalla tradizione contadina come momento per lo scambio del bestiame e dei prodotti agricoli, in una manifestazione che è stata poi rilanciata, per l’impegno del Comune, dei commercianti e di tanti volontari, dall’inizio degli anni Ottanta. Il fascino spontaneo della Fiera di San Lazzaro consiste anche nella speranza, in un periodo dell’anno nel quale abbiamo un po’ più di tempo, nel primo fine settimana di agosto, di riconciliarci con il nostro habitat grazie al richiamo di una comunità tipicamente italiana che ci accoglie e che cerca di mantenere più di quanto promette. Esattamente il contrario di quanto, in genere, accade. Per questo, una manifestazione semplice, ma ben radicata nel senso della storia, diventa, ogni anno, un’occasione a cui non mancare.
Da ultimo, proprio in relazione ad una ripresa della cultura gastronomica, nell’ambito del programma della Fiera, è stato promosso a Villa Serena un concorso di sfogline, donne e uomini, giovani e adulti, che sta riscuotendo un notevole successo. Ed ecco un nesso solido e motivato tra l'Associazione Gli Apostoli della Tagliatella e la comunità di San Lazzaro, nel richiamo ad un prodotto e ad un mondo a noi tutti cari, nella forma di un invito a coltivare un legame con le radici della nostra cultura, materiale e immateriale, per riassaporarne, insieme, di nuovo, il gusto.
Marco Macciantelli
Sindaco di San Lazzaro di Savena